| Sword Chant. |
| | Siccome voglio rovinarmi la vita, vi posto qua un paio delle mie Poesie °_° Amore in morte Lontano si scorge, ove il sole non sorge una chiesa erta, su di un ermo colle Infine d' un viale, cinereo, ella s'erge su d'un prato di bigie e morte zolle.
Grigia, come la vista ch'ella torreggia, e grande corte il suo altare ospita, d'incenso a festa, denso odor aleggia e con odor putrescente fa cernita.
Ancora sale in alto il lezzo putrescente e commisto è all'olibano finissimo corrotto poichè, di morta gente è corte. D'un contegno sì solennissimo.
Liete son le salme, con ricercate vesti, amabili e curate, pur se rosse lorde. Di ricorrenze tali e di tali fasti mesti, terrò il ricordo e suonerò le corde.
Canto l'amore morto, d'un felice imeneo un suicida e un'appestata vincolante. Canto or d'un amor slegato da ogni deo, a cui cerimonia pari n'è esistente.
Commosso, lo sposo, lacrime sulle gote aveva versato, al viso pallidissimo, sulle pelli sane e su quelle martoriate. E il suo viso ancora era bellissimo.
Da tutti era aspettata, la sposa rosata Da tutti era aspettata, la fortunata, E tutte aspettavan, lancio di nere rose, tutte volevan ora, imitare l'amata.
Ma da vaghi pensieri, gl'astanti si volsero all'aprir sordo dell'abazia i battenti, all'entrarta tutti, trepidanti, si mossero e puntaron tutti i loro sguardi spenti.
Le occhiaie di pece e il bouquet di rose di pallore rosata, di peste traviata ma di grano agreste eran i gialli cincinni e le iridi blu, come il mar in ripa.
Non andava di passo, ma zoppa all'altare, ma lieta, e il sorriso e felicissimo del pulpito lento, assaporando il piacere del matrimonio suo, bellissimo.
Ed il ministro arrivò, in nero vestendo abito e cappa, mantello e cappello, ch'ei ora ebbe alzato e occhi rivelando vuoti, il piccol, fragil scheletrello.
A dei ignoti a me, giuramento fu fatto un giuro eterno, giuro solennissimo "Vuoi tu mano sua di prender far l'atto?" Era per tutti ora, bellissimo.
E seppur fu morto, d'un bacio s'unirono e ardor tale ebbe, da sembrar vivo. Questa storia lettore, d'essi che furono, tu non sprezzare, ne guardar schivo.
Anche se nauseato, la mia storia ricorda, l'unione intensa, che due salme univa morte non è il peggio, oh lettore ricorda! Peggio l'orribiltà della persona viva. Ynys Mon Ancora, dopo anni muti e dolenti, ogni notte che luna piena e alta irradia col suo raggio la foresta, ed esso attraversa le fronde silenti, si riuniscono ogni notte anziani druidi, dalle driadi guardiane silvane benedetti. S'incontran e si tengon ancora stretti alle rovine di sacri dolemn lividi. Addolorati, cantano alla luna piena, e la lor cantilena ora risuona e la foresta s'accorda e intona un'armonia, che per le fronde mena. E le foglie d'ogni albero, accordate, si muovon all'uniscono armoniose dalla sublime melodia coincise e nelle sue liete note, in moto, legate.
La foresta ora, lenta, si risveglia portando con se nuovi odori e profumi, che mai conobbero i nostri lumi, e riempion la radura d'una dolce nebbia. Si destano antiche e mitiche creature dagl'elfi altezzosi ai troll bellicosi, dai nana laboriosi ai folletti giocosi, e si muovon attraverso le vie semiscure. Verso i sacri dolmen son tutti chiamati, lassando differenze e intemperanze infime e pian piano, alle sacre emanate rime anche i loro canti d'ogni lingua son uniti. Cantando, ogni essere umano et non, cantando fiamme verdi ora s'accendono sui dolmen rocciosi che più riposano e salgono, illuminando Ynis Mon.
Più salgon i canti, e più le fiamme ardono e divampano anch'esse salendo e ogni piccola foglia va danzando e la foresta s'illumina e s'anima d'un movimento coinciso in una sola nota lenta, alchè tutta la natura diventa un solo essere, in ogni cosa vivo. E par che un sol corpo ora danza da mille luci illuminato come un danzator costellato d'infiniti merletti verde speranza. La luna piena nel cielo nero, il bosco popolato di magia e creature d'ogni fantasia e il loro moto perpetuo, chimero.
Tutte le notti che il sole bacia l'equatore, antichi spetti si destano, raminghi, e vagan per gli alberi, vagabondi e tengon in vita dell'isola il cuore. Ove un tempo si studiavano i misteri dell'infinito e del tempo che va, l'enigma intricato e folle della libertà, e dei suoi immensi e terribili imperi. E ora, tra le rovine desolate e sole che ha lasciato il nemico latino, poscia il suo lavoro pulito e ameno, rimangon solo le roccie e le piante e le viole... ... e gli spettri sconsolati e nomadi che richiaman i tempi felici andati di saggezza e sapere e misteri perduti, gli spiriti d'Ynys Mon, scuola di druidi. Cruccio E t'odio e t'amo e t'amo e t'odio Io non so che fare che lassar occhio lagrimare
Ma nessuna lagrima si versa si anima è come la causa, persa!
Dimmi Eros come Zeus toro s'è fatto da riuscir d'Europa il ratto
Ditemi maestrali e venti di ponente dov'è affondata Atlantide potente?
Poichè si deve rapir con agili sembianze e poi si devon abbater le mura del core poche son de forzarle speranze affinchè esse cadan con frastuono e fragore
Ma non voglio l'assedio, rigetto battaglia! Mio desio è la veglia di creatur preziosa eppur mi doglie e non par gran cosa e sensi son volti alla rosa!
Fulgida tormentata, mandida colorata nera! E' nera come me e anima desiante pensier proibiti Perchè, perchè noi uomini cerchiam difficoltà e ché non mi distoglie d'oscura beltà?
Lassami cadere nell'Ade, che peggio posso fare? Venduto e vedo su me avvoltoi chiamati passioni banchettare Lassateli fare! I loro artigli nelle carni voglio sentire perchè l'uomo, prima maschio, sempre così vuol finire!
E tu creatura delle Parche dannate E fu l'istinto che volevan mie carni provate di sentire tue labbra su le miei incatenate e poi, buio. Gargolla Alas! Da quanto da quel doccione ci vedi vivere e c'osservi morire? Decenni! E sul tuo volto la stessa espressione.
Gargolla, tu che sovente devi subire la vista tormentosa di noi, gente riottosa, come puoi tu, grottesca creatura, non giudicare?
Eppure a te sovente chiamano "cosa", ma cosa, tristo, tu n'hai ancor visto? Da lassù hai visto sangue e petali di rosa.
Osservi ritto, come un Mefisto, le azion tutte, le gentili e le farabutte, le lodi gaie e gli spergiuri al Cristo.
Vegli ancor dalle alte e sacre vette e non voli ancor via, da questa società stantia? Perchè rimani sul doccione e non fai rotta?
Rimani pensoso sulla grand'Abazia a puntar lo sguardo, oh grande, ultimo baluardo, d'un'era che n'è mai stata nostra nè mia,
la sciagura e il "progresso", traguardo d'un umano perso sott'un cielo terso, che n'è più degno d'aver da nessun dio riguardo.
Allora volta, vola via! E fai verso in mondi non nostri, volando tra gl'astri, dell'essere blasfemo e del suo errato percorso.
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